A non è semplicemente un album, ma un’esperienza strutturata come una vera e propria rappresentazione teatrale: scene, voci, intermezzi e cambi di prospettiva accompagnano l’ascoltatore lungo un percorso che riflette sulle derive della tecnologia, sulla perdita di controllo e sulla fragilità dell’essere umano contemporaneo. I Teatro Euphoria costruiscono un concept ambizioso e stratificato, in cui musica e parola recitata si intrecciano fino a diventare inseparabili, attraversando elettronica, metal, jazz e post-rock senza mai perdere coerenza narrativa.
IA è anche un disco profondamente umano e necessario, segnato dalla presenza — e dall’assenza — di Federico Figlioli, chitarrista e compositore scomparso prima dell’uscita del progetto, la cui eredità artistica permea ogni scelta creativa. Abbiamo parlato con la band del lavoro narrativo dietro al disco, delle sue rotture formali, del rapporto tra uomo e tecnologia e del significato emotivo che IA porta con sé.
1. IA è costruito come un vero concept, con tracce introduttive che guidano l’ascoltatore da una scena all’altra, quasi come in una pièce teatrale. Quanto avete lavorato fin dall’inizio sull’idea narrativa complessiva, e come siete arrivati a decidere che ogni brano dovesse essere preceduto da un’introduzione recitata?
Un giorno – nel bel mezzo della fase della registrazione dell’album – mi reco a casa di Federico, dove c’era Eugenio che stava registrando le parti vocali. Io ero andato lì solo per assistere al lavoro, ma al mio arrivo vengo accolto con un’idea: inserire delle skit recitate tra una canzone e l’altra.
Federico aveva scritto questi testi da far recitare a ognuno di noi, e pensava di comporre qualcosina per accompagnarle. Mi ricordo che pregai loro due per farle comporre a me: in quel periodo avevo appena finito di scrivere la tesi e, mentre la scrivevo, ascoltavo a ripetizione Manafon e Blemish di David Sylvian, due album di musica avant-garde davvero sperimentali.
Ispirandomi a questo, ho cominciato a buttare idee per queste “skit”, che sono arrivate in modo prepotente e quasi immediato. Mancava solo registrare il materiale per metterle in pratica: arpe (un ringraziamento speciale alla mia amica Rita Comis!), mangianastri, sintetizzatori analogici, organi elettrici, bombole del gas, flauti celtici, ocarine, drum machine, ossa di pollo (e tacchino!), handpan…
Abbiamo persino registrato diciotto minuti di noi stessi mentre facevamo suoni con avvitatori, forchette, cucchiai, buste, scacciapensieri. È stato divertentissimo comporre, registrare e arrangiare tutto questo. Vi sfiderei a cercare di trovare i suoni più strani registrati.
(Michele “Giuggiolo” R.)
2. Il percorso dell’album attraversa temi molto forti — dall’abuso di tecnologia alla perdita della ragione — e culmina nel brano Scacco, che rompe volutamente lo schema delle altre tracce. Qual è il significato simbolico di questa eccezione formale e narrativa?
Inserire Scacco alla fine dell’album non è stata una scelta facile. Inizialmente eravamo incerti, frenati dall’ennesima regola di mercato che cercavamo di imporci. Poi ci siamo ricordati che non facciamo parte di certi meccanismi.
Non esiste una regola del “giusto”, esiste solo il divertimento collettivo. Capire di essere liberi di includere questo brano è stato eccezionale. Scacco dona all’album uno slancio di “lucida follia” che rompe ogni schema.
Anche la sua sonorità — distante da quelle precedenti — crea un disorientamento iniziale che evolve in un’armonia perfetta. È la dimostrazione che nulla ha una regola fissa, ma tutto si riconnette all’assurdo, una dimensione che solo l’essere umano può concepire.
Scacco è la madre della nostra follia e celebra il lato bambino che è in noi. Con questo brano abbiamo voluto dire che la creatività non appartiene al mercato, ma a slanci di puro bene.
(Eugenio “Zenio” S.)
3. IA è anche un omaggio a Federico Figlioli, chitarrista e compositore tragicamente scomparso prima dell’uscita del progetto. In che modo la sua eredità ha influenzato la forma e l’energia emotiva del disco?
Federico è sempre stato molto attivo in tutte le fasi, soprattutto in quelle di proposta e sviluppo. È parte integrante dell’album: senza di lui niente di ciò che avete sentito sarebbe stato possibile.
Per rispondere, cito l’interpretazione che una persona a me cara mi ha suggerito: quest’album è l’alfa e l’omega. Dentro c’è tutto — l’umano e il digitale, la vita e la morte. La nascita, con il battito del cuore di Zelda all’inizio, e la morte sconfitta per sempre dal nostro caro fratello.
Federico era profondamente connesso alla sua arte, e questo album è in qualche modo la sua eredità. Siamo onorati di condividerla con lui.
(Emanuele “Lele” L.)
4. Musicalmente il disco attraversa elettronica, metal, jazz e post-rock, restando però coerente nel suo impatto narrativo. Come avete lavorato su questo equilibrio?
È stato davvero impegnativo mantenere una linea tematica, anche perché siamo sempre stati un gruppo che non si è mai soffermato su un solo genere.
Il filo narrativo e la parte lirica rispettano in maniera coerente la strumentale, e questo vale per ogni tipo di canzone ma anche per ogni skit. È lì che tutto si tiene insieme.
(Gabriele “Branchia” N.)
5. Il cuore del concept ruota attorno al rapporto tra uomo e tecnologia. Guardando al dibattito contemporaneo sull’intelligenza artificiale, che messaggio sperate di lasciare all’ascoltatore?
Oggi abbiamo troppe comodità tecnologiche e spesso le utilizziamo male. “L’innovazione è prodigio”, ma interrogare l’IA per futilità — o per ambiti come l’arte, che richiedono sensibilità umana — dove ci porterà?
In un mondo in cui l’arte è generata da un cervello meccanico e asettico, stiamo educando e umanizzando un computer per concederci il lusso di diseducarci, anche artisticamente, pur di avere tutto più facile.
Pensiamo che “bastino pochi comandi per riavere Botticelli tra di noi”, ma è l’errore umano, insieme alla sensibilità, che spesso dà vita a opere incredibili. Il nostro messaggio non è quello di non usare certi strumenti, ma di non lasciarsi vincere da essi, scegliendo la semplicità di un click invece di sporcarsi le mani di inchiostro, pittura o chiudersi in una sala prove.
(Gabriele “Gunnar” P.)
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